Alba Monti mi guarda come se fossi matto a cercare di fare ordine nella sua biografia.
L’intervista è frutto di alcuni incontri nel suo giardino di Squinzano, a Lecce, immersi in una flora che non posso definire altrimenti che lussureggiante. Anche gli interessanti cimeli provenienti da ogni parte del mondo ci osservavano curiosi e smarriti. Sembravano quasi a comprendere il mio stupore nell’apprendere di questa o di quell’esperienza. È seguito uno scambio di email per mettere ordine nelle cose e nei pensieri. L’ho conosciuta nel 2010 come attivista per la pace con Peacelink, ma la sua esperienza sconfinata merita di essere raccontata.
Chi è Alba Monti, antropologa giramondo e insegnante per gli ultimi
Nata negli anni Cinquanta a Squinzano (Lecce), Alba Monti ha compiuto studi classici al Liceo di Lecce e quelli di Sociologia e di Antropologia all’Università di Urbino. Si è laureata nel 1980 con una tesi sperimentale sui dogon del Mali; quindi ha alternato i suoi interessi etnografici tra i dogon e i ba-yaka d’Africa, i rom indo-europei, gli indios dell’Amazzonia, i nativi del Nordamerica.
A questi interessi ha coniugato quelli per la Sociologia dell’educazione che l’hanno vista sul campo per venticinque anni:
- nella scuola del carcere di Lecce,
- tra i minori e gli adulti di strada nelle grandi città dell’Africa e del Brasile,
- tra le bambine e i bambini di luna park e circhi nell’Est europeo
- e in molti “altrove”, come definisce i veri e propri mondi che ha conosciuto.
Nel 2004 si è laureata in Scienze dell’educazione, con una tesi sperimentale sull’ educazione degli adulti in carcere.
Alba ha insegnato in diverse università italiane e straniere. L’ha attesa un’intensa attività di docenza in corsi di formazione ed è relatrice in numerosi convegni sui temi dell’educazione, dei diritti, della pace, dell’economia, del linguaggio di genere.
Alba Monti e la sua attività di scrittrice e divulgatrice
Ha collaborato con diverse riviste, tra cui A-Rivista anarchica; AIFO-Amici dei lebbrosi; Il Cerchio-Coordinamento di sostegno ai e dai nativi americani; Amici degli Indios; Studi e Ricerche (Università di Lecce) e altre ancora. Ha curato testi per importanti case editrici.
Ha pubblicato racconti, romanzi, favole e saggi sulle culture tra le quali si è formata. Molti di questi sono stati letti e adottati in molte scuole di ogni ordine e grado, università compresa: Il decentramento narrativo nella scuola dell’handicap (2001), Non era cieco il mio Omero Indio, (2005), la trilogia di favole La Missione segreta della Gambusia Gialla, Una difficile scelta, Il Paese delle Parole di Cristallo (2020).
Il suo ultimo lavoro è la leggenda de Il Piccolo Anarchico (2021).
Alba Monti e il Piccolo Anarchico
Il Piccolo Anarchico è soprattutto una riscrittura molto personale de Il piccolo principe, ma in chiave anarchica. Perché questa scelta?
“Me l’ha suggerito il libro di Saint-Exupery. Stavo rileggendo con grande piacere il racconto de Il piccolo principe quando è arrivata la notizia della morte di un grande Amico, maestro di anarchia e di coerenza”.
“Tra i tanti ricordi che ho letto di lui, mi ha intenerito quello scritto dalla sorella, che ce lo presentava piccolo, biondo, vivace e in bicicletta. Ho provato a immaginarlo da ragazzo, con i suoi interessi, le sue domande”.
“Una brava artista che pure lo conosceva, Maria Rosa Nani, ha scelto di disegnarlo, e per altri dodici mesi l’ho “tenuto in vita” tra le pagine del libro ricordando e trascrivendo i tanti dialoghi che avevamo fatto insieme. Poi l’ho riconsegnato alla Storia, quella che lui stesso aveva scelto di scrivere, ho chiuso pagina 207 (anche questo numero simbolico), e ho dato il libro alle stampe”.
Alba Monti, la libertà e l’anarchia
Con un modo di parlare molto maturo, il Piccolo Anarchico realizza un vero e proprio compendio di anarchia con bibliografia minima finale. Tutto ruota intorno a uno specifico concetto di libertà. Qual è il significato che il piccolo anarchico dà a questa parola?
“Libertà è innanzitutto la possibilità che abbiamo di poter vivere (e di saper vivere) in armonia. Come spiega Kropotkin, l’armonia si ottiene “non attraverso la sottomissione alla legge o l’obbedienza a qualche autorità”, ma per liberi accordi conclusi tra pari e aventi come fine la produzione e il consumo di beni e servizi, e “il soddisfacimento della infinita varietà di esigenze e aspirazioni di un essere civile”.
“Può sembrare utopia, ma non lo è. E nelle pagine del libro viene spiegato bene come si tratti, invece, di eu-topia, cioè di un luogo possibile. Vi sono molti esempi che mostrano come è possibile, pur se impegnativo, vivere senza le regole dettate (e spesso imposte) da una società organizzata gerarchicamente, e organizzarsi nella più ampia libertà. A patto che questa sia in armonia con la responsabilità: individuale e collettiva”.
“Se ogni persona vive con responsabilità all’interno del proprio gruppo, si può formare una società di persone libere. Il cui fine non è il proprio tornaconto, ma il benessere dell’intero gruppo. E qui risuona il concetto di “coscientizzazione” del grande educatore brasiliano Paulo Freire, il cui libro Educazione come pratica di libertà non è stato né letto né compreso”.
Alba Monti, l’anarchia, i fiori e i popoli
“Il Piccolo Anarchico spiega in più punti come la libertà abbia bisogno di essere seminata, coltivata, nutrita, proprio come una pianta o un fiore. Riferendosi ai popoli che vivono in isolamento volontario in Amazzonia, fa notare come questi resteranno liberi solo se non si omologheranno al nostro modello di cultura e di Stato”.
“Noi chiamiamo “nascita dello Stato” quel momento irrazionale in cui è prevalsa la nostra assurda volontà di asservimento. Il costo da pagare è stato sempre la perdita della libertà: per l’individuo e per la collettività”.
“Oggi resistono ancora popoli che non hanno fatto questa nostra stessa opzione, e hanno un altro modello di società organizzata”.
Alba Monti e i popoli incontattati dell’Amazzonia
“Sono, per esempio, alcuni gruppi nativi dell’Amazzonia: finché potranno scegliere di rimanere incontattati (che significa liberi dall’invasione e dallo sfruttamento dei cercatori d’oro e di terre rare, dai taglialegna illegali, dai tanti furti di terra travestiti di legalità da parte dallo Stato), questi popoli continueranno a vivere in piccoli gruppi distinti e liberi, ciascuno con le proprie diversità, anche con una lingua diversa, senza un capo gerarchico, senza una divisione sociale tra dominanti e dominati, tutte e tutti uguali, senza che prevalga la smania di esercizio del potere”.
“Proprio come nel modello di società anarchica”.
Alba Monti e Il Piccolo Anarchico, un libro biografico e fotografico
Il tuo è anche un ricchissimo libro fotografico, i cui soggetti sono soprattutto fiori rarissimi e spesso simbolici. In particolare ce n’è uno che rappresenta l’anarchia: qual è e perché?
“Nel mio andare per il mondo, raramente ho fotografato cattedrali moderne o antichi templi in rovina, tranne qualcuno veramente originale nell’India del Sud. Quelli sono fermi immobili e io li posso ammirare nei libri di viaggi altrui e nei testi di storia dell’arte”.
“Ma un’alba sul mare a San Cataldo a Lecce il 7 maggio del 2013 o un tramonto dopo una violenta pioggia tropicale la sera del 9 agosto 1988 proprio su quell’ansa del Rio delle Amazzoni, un fiore rarissimo sbocciato nel mio giardino in quell’angolo di foresta o un colibrì che si posa proprio su quel fiore, li poteva rendere immortali solo la mia macchina fotografica”.
“Perciò tramonti, albe, persone e fiori sono i soggetti privilegiati dei miei scatti fotografici. Perché a ogni immagine posso legare una storia. E molte delle immagini presenti nel libro le avevo guardate insieme al mio amico, non più piccolo ma grande anarchico, che ascoltava quelle storie mentre commentavamo le foto”.
Il Piccolo Anarchico e le Heliconie di Dom Alcimar
“Fra queste gli erano molto piaciute le tante specie di Heliconie del giardino di Dom Alcimar. Che quei fiori ricordassero “la fiaccola dell’anarchia” era una idea venuta a lui. Ne avevamo parlato a lungo e io gliene avevo promesso i semi perché potessero crescere anche nella sua casa”.
“Da qui le tante metafore, le allusioni, le similitudini, le analogie di cui scrivo nel libro. Il Piccolo Anarchico spiega perché l’Heliconia ricorda la libertà: “Ho scoperto che questo fiore ha una grande proprietà: non è effimero come gli altri, ma riesce a vivere a lungo. Proprio come devono esserlo le idee migliori, prima fra tutte l’idea di libertà. Voglio piantarlo dove vivo io perché continui a crescere anche quando io non ci sarò”.
“Di mio ho solo “inventato” la leggenda dei Ludoreyo (popolo sapiente e libero, e non del tutto estinto) e del loro fiore simbolico (la Helicionia)”.
Alba Monti e l’attenzione verso gli ultimi
Il libro contiene molti riferimenti alla tua intensa biografia. Anzitutto perché l’interesse verso gli ultimi, dai poveri dell’Amazzonia agli ultimi dei circhi, dei luna park e delle carceri?
“A questa domanda non è facile rispondere. Certamente perché io non ho mai considerato “ultimi” gli Indios del Sudamerica, i pigmei Yaka del Centrafrica, i Dogon del Mali… tutt’altro!”.
Alba Monti, insegnare ai bambini di tutto il mondo
“Questi popoli sono depositari di quella sapienza e conoscenza che non si apprendono né sui migliori libri, né con i migliori insegnanti; sono stati loro i miei veri Maestri, più di Amalia Signorelli, Giancarlo Scoditti, Pierpaolo Giglioli, Paolo Fabbri, Umberto Eco, Carlo Bo”.
“Anche i Bambini di strada del Ciad, che ho incontrato a N’Djamena dove sono andata per una “ipotesi di progetto” e i Meninos de rua con i quali ho lavorato per anni a San Paolo del Brasile sono stati i miei Maestri. Mi hanno insegnato cosa è la strada e come si vive e si lotta per poter stare e poter vincere, in strada e altrove. Mi hanno insegnato cosa è la vita al di là del muro dei nostri privilegi”.
Alba Monti, insegnare ai bambini di circhi e luna park
“Maestre e maestri sono stati, fuor di metafora, le bambine e i bambini di Luna Park e Circhi: io ero la maestra che doveva insegnare loro quelle poche cose che bisogna conoscere per passare gli esami nella scuola dell’obbligo, ma loro mi hanno insegnato il Mondo”.
“Perché con il Luna Park e il Circo ho girato l’intera ex Jugoslavia, la Libia, la Turchia, e altri Paesi ancora. Erano Ines, Dante, Mimmo, Claudio che di volta in volta mi insegnavano lo sloveno, il serbo, il croato, il turco, l’arabo… e mi portavano a conoscere luoghi unici per bellezza e interesse a me sconosciuti, ma che loro avevano già esplorato da tempo, perché da tantissimi anni le loro roulotte solcavano sempre le stesse strade”.
“Il mitico Orient Express e il Palazzo di Topkapi a Istanbul, o le Grotte di Postojna e gli splendidi cavalli bianchi di Lipica in Slovenia, solo per citarne alcuni”.
“Tutti questi incontri straordinari li ho fatti perché li consideravo “primi”. Ciascuno e ciascuna di loro era ed è “prius extra pares”, dove extra rimanda alla radice di extraordinario!”.
Insegnare a chi vive in carcere
“Mi chiedi del carcere e di chi ci vive: l’insegnamento in carcere è stato soprattutto “strumento” e non fine, perché per girare il mondo in piena libertà (come è scritto nelle pagine del libro) bisogna essere anche economicamente indipendenti”.
“È stato soprattutto l’insegnamento in carcere a fornirmi l’indipendenza economica per organizzare da me le spedizioni scientifiche che ritenevo più vicine ai miei interessi, senza dover essere di volta in volta il codino di questa o di quell’altro antropologo”.
“Poi succede che in carcere incontri Antonio Veleno, Cosimo Da Mesagne, Mario Musardo, Pietro L., Ilario C., Valerio O. e ti accorgi di quanto spessore, quanta tenerezza, quante opportunità negate, quanta testardaggine, quanto valore, quanta fame di sapere, quanto incredibile, quanto infinito si nasconda nelle loro vite e nelle loro storie; e va a finire che con loro ci resti venticinque anni di fila. I miei ultimi – questi sì – anni di insegnamento”.
Alba Monti e i bambini in carcere a São Paulo
“Forse i veri “ultimi” sono stati gli ospiti delle prigioni del Brasile e del Congo. Nel carcere del Brasile ho avuto due esperienze molto crude: la prima nel 2000, nel carcere minorile di São Paulo tristemente famoso per le violenze interpersonali e istituzionali”.
“Vi era finito un ragazzino di cui mi occupavo da un paio di anni e di cui ho “adottato” l’intera famiglia: avevo dato alla madre una copertina in pile perché durante la notte non morisse di freddo, poiché era rimasto con un pantaloncino corto e una maglietta lacera che indossava mesi prima al momento dell’arresto”.
“La notte stessa è stato massacrato di botte dai compagni che gli hanno rubato la copertina e alcuni biscotti che pure gli avevo mandato. L’unica cosa che ho potuto fare per lui è stato lasciare alla brava suora che l’anno prima mi aveva aiutato a toglierlo dalla strada i soldi per l’avvocato”.
Alba Monti e l’esperienza del carcere a Tocantins
“La seconda esperienza brasiliana, invece, mi ha vista lavorare in un carcere del Tocantins dove ero entrata, su invito del direttore e del sindaco della città, per una analisi di fattibilità relativa alla istituzione di un corso di alfabetizzazione”.
“Le condizioni igieniche e sanitarie, per tacere il resto, che ho potuto constatare in tre giorni di permanenza mi avevano fatto comprendere che quello della scolarizzazione era l’ultimo dei bisogni in quel contesto; pertanto mi sono improvvisata aiuto-medico del dottore Eduardo Manzano insieme al quale avevamo fatto molte diagnosi che avevano come denominatore comune la fame!”.
“Ne ho scritto in alcuni articoli e in un libro che ho curato nel 2020 (Amare è agire, Pensa Multimedia)”.
Alba Monti e l’esperienza nel carcere in Congo
“Su A-Rivista è apparso un ampio articolo sulla mia esperienza nel carcere del Congo, dove soggiornavo per un invito a tenere il Corso universitario di Etnomedicina”.
“Il carcere di Kenge, 300 km da Kinshasa, non era nel mio orizzonte ma ci sono finita come calamitata perché vi passavo ogni mattina per andare all’università. Anche lì, come in Brasile, ho portato pane e ho contribuito a farne uscire due donne e una bimba di tre anni”.
“Ma, ripeto, non ho scelto io il carcere: è stato il carcere che ha scelto me. Per quelle strane liaison che accadono ma che non si comprendono appieno”.
Giramondo e poliglotta
Parli almeno sette lingue. Come ci sei riuscita?
“Le ho studiate con e tra la gente, nei suk, nei supermercati dove la sera andavo a fare la spesa per scoprire innanzitutto cibi nuovi e per trascrivere sulla mia moleskine il loro nome, ma anche quello del pane, dell’acqua, i numeri relativi ai prezzi”.
“Prima ti dicevo delle bambine e dei bambini del Luna Park: alla loro età le lingue si apprendono molto facilmente, tra coetanei e per strada, e poi è bello poterle insegnare alla maestra!”.
“È stato così per lo sloveno, il serbo, il croato, il turco, l’arabo. Da giovane ho studiato il francese e in seguito ho dovuto “frequentarlo” molto per leggere e tradurre i tantissimi testi utili alla compilazione della mia prima tesi di laurea; il resto lo hanno fatto i soggiorni in Ciad, Tunisia, Congo”.
“All’Università di Lecce ho frequentato un corso di arabo e perfezionato il portoghese appreso in Brasile. In foresta amazzonica, dove la lingua veicolare – il brasiliano o talvolta il castigliano – era conosciuta solo da poche persone adulte, per poter comunicare con la gente del posto ho imparato da frei Ciro alcuni rudimenti della lingua tiküna”.
“Per dare una mano alle e agli studenti sordi che frequentavano l’università di Lecce ho imparato la LIS, la lingua dei segni”.
“In carcere, invece, per salutare tutte le persone che incontravo nel percorso che mi portava dal cancello di ingresso alle aule scolastiche ho imparato a dire buongiorno, come stai, arrivederci e grazie in molte altre lingue. Ed erano loro stessi a insegnarmi o a scriverle sulla copertina del mio registro: certamente le avrei ricordate per un intero anno scolastico”.
L’insegnamento di Ki-Zerbo
“Joseph Ki-Zerbo, un sociologo africano che ho incontrato quando studiavo a Roma, mi ha insegnato che “la lingua è la casa”: conoscere anche solo una parola di chi ti sta di fronte è sufficiente per abbattere i muri della diffidenza e della indifferenza”.
Alba Monti e il concetto di educazione
Il libro Il Piccolo Anarchico è un documento e anche una testimonianza in favore di un modo diverso di educare. Qual è il messaggio in questo senso e com’è possibile perseguirlo?
“Partirei dal mio personale concetto di educazione, che non è quello socraticamente inteso di ex-ducere, tirare fuori, ma si rifà piuttosto alla radice edu- quella stessa di edule, commestibile, e perciò fa pensare al cibo”.
“Forse perché ho quasi sempre insegnato a persone adulte (in carcere, nelle università italiane e straniere, ai corsi per insegnanti di sostegno), ma io ho inteso l’azione educativa alla stessa stregua di un invito a pranzo: ciascuna e ciascun invitato porta con sé e mette in tavola quello che ha”.
“Quel cibo viene condiviso, le ricette vengono scambiate, analizzate, migliorate con ingredienti nuovi, e così il cibo diventa nutrimento”.
“C’è posto anche per chi non ha portato niente perché non sa cucinare: adesso può imparare, oppure costruire pentole nuove: questo è il suo contributo culturale al gruppo”.
“Il resto me lo hanno insegnato Lorenzo Milani da Piadena, Danilo Dolci dalla Sicilia, Rubem Alves e Paolo Freire dal Brasile”.
“In particolare Freire, che parla di “educazione come pratica di libertà”, come strumento di emancipazione. Infatti, studiando e appropriandosi della cultura dell’invasore, i popoli nativi hanno potuto trovare le parole e la sintassi più giusta per reclamare i propri diritti”.
I piccoli maestri di Alba
“Penso a Sonia Guajajara e a Joênia Wapixana che hanno studiato il diritto e ora chiedono ad alta voce che siano rispettati i diritti dei popoli nativi d’Amazzonia. E hanno potuto candidarsi alle elezioni presidenziali o farsi eleggere in parlamento perché tutto non resti sulla carta”.
“Penso più semplicemente a Claudio, Toni, Mimmo, Ines, Sabrina che dopo aver studiato nella scuola itinerante in roulotte hanno potuto frequentare la scuola superiore, e poi scegliere se continuare ancora fino all’università oppure cercare lavoro nelle fabbriche o comprare una giostra e restare nel Luna Park: libere e liberi di scegliere il proprio futuro”.
“Penso a chi è entrato analfabeta in carcere e dopo il diploma ha scelto l’università, e poi fuori ha potuto spendere quel titolo; oppure è ancora dentro ma con una consapevolezza maggiore e affrancato, per fare un esempio pratico, dalla dipendenza dall’avvocato perché ora sa scrivere da sé le proprie memorie difensive”.
“E queste sono solo le mie poche esperienze personali. Immagino quante e quanto belle se ne siano realizzate nel mondo grazie alla tanto odiata e tanto amata scuola. Purché sia la scuola che educa, e non la scuola che addestra. La scuola che in-segna e non la scuola che forma”.